Che la Juve non sia andata insieme, dopo quell' inopinato tracollo, è merito sublime dei suoi dirigenti. La società ha retto come la squadra. Darla favorita in campionato è apparso logico a chiunque non fosse banalmente illuso. Il campionato è stato puntualmente vinto. Il ventunesimo scudetto si è aggiunto agli altri: una piramide di legittimo orgoglio appetto di altre che superano a stento la sua metà. E adesso entra in libro d' oro anche la Coppa Coppe. E gridare "viva!" è il minimo che si possa. Vale e consiste l' evento di per sè. Resterà il nome Juventus nel libro d' oro della Coppa Coppe e tanto basta. Ma se dobbiamo riandare alla finale, onestà critica vuole che respingiamo subito ogni fatua idea trionfalistica. Il piacevole Porto ha fatto tutto per venire infilato a dovere. Purtroppo, sono disastrosamente mancati i soliti goleadori: primo fra tutti Paolo Rossi, acciaccato e frastornato da un continuo accerchiamento di avversari agili e decisi; poi, il divino Platini, malamente mortificato da ritmi che lo escludevano di acchito; infine, l' impetuoso magnifico Boniek. Il polacco è stato senza dubbio il migliore per intensità di partecipazione e coraggio di gesti atletici: però, ha scontato la foga con improvvisi obnubilamenti sotto misura. Ammirati come eravamo di lui, avremmo preteso altro dal suo indomito cuore. Ahimè: il calcio è dramma completo, che non consente sgarri: l' eroe eponimo non può giungere al lancio con il giavellotto spuntato: Boniek lo ha fatto fino a convincersi (ed è segno di intelligente modestia) che meglio convenisse affidare ai compagni il colpo di grazia: due palloni ha dato a Rossi che gridano ancora oggi vendetta al cielo. I critici di tutta Europa hanno ingiustamente affibbiato a Zè Beto la colpa di una sconfitta che invece non lo tange. Zè Beto ha sventato tante palle-gol quante bastano a confondere i più acri negatori dei meriti juventini. Di questo ci dobbiamo ricordare per non essere ingiusti verso nessuno, nè verso i portoghesi, dagli armoniosi e assidui palleggi, nè verso gli juventini, che l' inferiorità numerica a centrocampo ha messo fin troppo spesso nella condizione di doversi difendere all' italiana. L' Avvocatissimo Agnelli, che riesce ad essere acuto anche nell' esercitare il più efferato snobismo, ha detto del Porto che gioca secondo un modulo vecchio di venticinque anni, ed ha ricordato in proposito l' Uruguay. Sicuramente, ha fatto torto ai nostri maestri degli anni Trenta. Più rispettoso delle nostre podomachie sarebbe stato Giovanni Agnelli se, parlando della sua Juventus, avesse ricordato un' Italia anni 68-70 malauguratamente priva di Luis Riva da Leggiuno. Quante volte non mi è toccato di rimpiangere e invocare rombodituono, assistendo alle asfittiche ribellioni offensive della Juventus? Gigirriva avrebbe fatto di Zè Beto una vittima così bistrattata da rasentare il grottesco. Ahimè, il clangore prodotto da quelle scariche tanto promettenti aveva appena il tempo di trasformarsi in sospiro. Così, tifando Juve come esigono il rispetto del mestiere e l' amore stesso della patria pedatoria, altro non poteva il cronista di parte che dirsi ammirato degli agili e fantasiosi portoghesi con una sola ma valida riserva: che il giocare bene non basta se i temi offensivi si urtano a una difesa di ferro; che giocare bello senza gol significa - eh sì - masturbare calcio. Insomma, che prendano su, gli amici portoghesi, e portino a casa le ammirate lodi di tutti. - da La Repubblica del 17.05.1984
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